Fame Concreta nei musei della ceramica di Nove e Bassano del Grappa

Scopriamo la storia della tavola veneta in un percorso speciale all’interno del Museo della Ceramica di Nove, quello di Bassano del Grappa, e quello del Liceo Artistico De Fabris.

Seguendo il tema del cibo, nell’uso, nella decorazione o nella rappresentazione scultorea degli oggetti in ceramica, scopriamo un unico patrimonio culturale, che ha visto protagoniste manifatture e artisti diventati noti in tutto il mondo.

La ceramica graffita del XVI secolo

Il viaggio si apre con una semplice ciotola. In contrasto con la sontuosa decorazione che caratterizza la produzione a venire, questo oggetto del XVI secolo è in ceramica graffita, molto diffusa in Veneto e nel nord Italia. Si realizzava ricoprendo i vasellami, crudi ma essiccati, con un sottile strato di terra bianca di Vicenza, che poi si asportava mettendo in luce porzioni di terra sottostante più scura.

Il contrasto diventava evidente dopo la prima cottura, e impreziosito con decori molto vari, di cui i più asettici, come il trigramma di San Bernardino, erano destinati alle mense domestiche.

Al Museo di Bassano è esposto un esemplare integro di scodella col labbro dritto della seconda metà del XVI secolo, proveniente dal Castello medievale degli Ezzelini, mentre in quello di Nove troviamo un frammento di ciotola con decori popolari di manifattura vicentina del secolo XVII.

I grandi servizi da tavola del XVIII e XIX secolo

Nei primi decenni del settecento venne fondata quella che sarà la più importante fabbrica di maiolica del veneto: la manifattura Antonibon, la cui produzione è presente in tutte le tavole più prestigiose d’Europa. A partire dal 1737, quando Pasquale subentrò al padre, ebbe inizio il periodo più florido dell’azienda. Le maioliche Antonibon vennero apprezzate per “la varietà dei lavori“, la “pulitezza“ e per “l’adornamento di ben eseguite pitture”.

Realizzava forme complesse ma leggere, che andavano a comporre le importanti tavole dell’epoca: grandi centrotavola con alzate, vasche rinfrescatoio, zuppiere, tazze da brodo. Servizi impreziositi da straordinari decori reinventati dai pittori Novesi “alla maniera di Delft” o seguendo la moda europea della cineseria, oppure anche in dialogo con i tessuti da tavola.

A questa novità produttiva si aggiunse, verso la fine del XVIII secolo, una diversa concezione di vita famigliare, dettata da un maggiore desiderio di intimità, che portò a definire meglio gli spazi domestici, dando al salotto la funzione di luogo di rappresentanza, dove accogliere amici e visitatori.

L’ora del pasto divenne il momento ufficiale di riunione fra le varie generazioni e “l’arte di allestire la tavola”, assunse un suo preciso ruolo, generando un forte incremento della produzione di vasellame in porcellana e in argento.

Questi mutamenti in usi e costumi vennero anche codificati in veri e propri trattati su come apparecchiare la tavola, e portare stile e perfezione in ogni aspetto della vita quotidiana. Nacque “le bon ton”, che furoreggiò in tutta Europa, favorendo la nascita di una grande varietà di oggetti dagli specifici e innovativi utilizzi.

Al Museo del Liceo de Fabris troviamo un centrotavola in maiolica di Antonibon datato fra il 1738 e il 1774, dalla complessa e finissima decorazione policroma a cineserie con ponticelli, pagodine, piramidi, palmette e fiori.

Al Museo di Nove, della stessa manifattura ed epoca, segnaliamo un centrotavola con sopralzo, caratterizzato da vari piedini, e altre forme particolari e caratteristiche del periodo. La Veielleuse a torre, in maiolica prodotta dalla Manifattura Fabris, è un bricco in ceramica, sorretto da un corpo cilindrico bucherellato contenente un lumino a olio, che, bruciando, manteneva calde le bevande.

Sempre in maiolica e della Manifattura Antonibon, troviamo la vivandiera datata 1750, divisa in quattro contenitori componibili con carrello di ferro, e caratterizzata dal tipico decoro “a blanser”, con un gruppo di tre piccoli fiori accorpati e contornati da foglie.

Nelle grandi tavole dell’epoca era essenziale il coprivivande, che possiamo osservare al Museo di Bassano in maiolica, dalla caratteristica tinta della tavolozza di Pasquale Antonibon: un insolito verde marcio, che spesso è abbinato al blu e al giallo. Come pure la rinfreschiera in maiolica, qui esposta con labbro mistilineo, corpo ellittico profondo e vistosamente baccellato e decoro a ponticello, sempre della manifattura Antonibon, del 1760 circa.

La tavola era completata dalle posate con i manici in maiolica, esposte anche al Museo del Liceo, insieme ad altri oggetti indispensabili per il consumo dei pasti, come il portampolline per olio e aceto in terraglia paglierina, con decorazione monocroma, filettature e bordi in blu.

All’interno di questa ricca produzione ritroviamo la tazza da brodo, o tazza della puerpuera: oggetto prezioso offerto come dono simbolico alla donna diventata madre per la prima volta, dalla “comare”, ovvero la moglie del testimone di nozze. La sua forma riprende quella delle tazze “a ciotola”, e poteva essere con o senza coperchio, con decori più o meno elaborati.

Decorazione a fiori policromi e ghirlande di foglioline verdi, con minuziosi paesaggi in sfumature grigio e bruno, caratterizzano quella esposta al Museo del Liceo con manici a volute.

A Bassano ne troviamo una caratterizzata da sei riquadri polilobati, incorniciati da aquile stilizzate e rami fogliacei. La presenza dell’arco di trionfo sullo sfondo e di due scene di battaglia conferma l’ipotesi che questa tazza sia stato un omaggio a Napoleone, in occasione dell’esposizione bassanese del 1807.

I servizi da caffè e da the del XVIII e XIX secolo

L’abitudine di bere il caffé e le altre bevande calde, arrivò in Italia solo nel ‘700 trasformando radicalmente le usanze dell’aristocrazia e della borghesia emergente. Agli oggetti per la tavola sontuosa che abbiamo appena visto, si affiancò quindi tutta una produzione iniziale di porcellane europee, considerate un vero status symbol, caratterizzata prima da raffinata semplicità, che poi si moltiplicherà con vivace fantasia in modelli e ornati.

In Europa i primi sacchi di caffè anticiparono di quindici anni quelli del the. L’importazione mercantile fu avviata da Venezia nel 1615 e in quell’epoca il caffè, oltre a rappresentare una rarità, era bevuto più come un medicinale per le sue proprietà digestive, che per un momento di puro piacere. Ovviamente divenne una consuetudine legata alle classi privilegiate, godibile anche a livello popolare solo a Venezia. Facendo una mappa dell’arrivo delle tre bevande esotiche in Europa notiamo una miglior accoglienza del the nei paesi nordici, del caffè in quelli meridionali, e della cioccolata ovunque!

Il rito del caffè costituisce dunque nel ‘700 un momento fondamentale della vita quotidiana per le agiate famiglie veneziane, e le fabbriche, non solo novesi, ma di tutta Europa, fanno a gara nel produrre in porcellana raffinati servizi solitaire: vassoio con teiera monodose, lattiera, zuccheriera e tazzina decorate da eleganti giochi floreali, e romantici tete-a-tete, simili ai precedenti con la sola aggiunta di una tazza con piattino.

Alle diverse bevande e ai relativi riti di preparazione e consumo, erano legati forme specifiche che si andarono codificando nel corso del secolo con varianti a seconda del luogo di produzione. Il the si serviva in teiere basse e per lo più globulari, mentre le caffettiere presentavano un maggior sviluppo verticale. Le cioccolatiere erano simili alle caffettiere, ma il manico, invece di essere in linea con il versatoio, era perpendicolare ad esso. Anche la tazzina, oggetto del consumo individuale, aveva delle forme ben precise: a coppetta per il rito del the e del caffè, a parete alta per il caffè e la cioccolata.

Le esotiche bevande, cariche di energia e aromi, sono sempre state fonte inesauribile di ricerche formali e decorative, come si vede dalla vastissima e fortunata produzione di tazze, piattini, teiere, vassoi anche nelle manifatture venete, presente nei tre musei.

Al Museo di Nove segnaliamo una tazza con piattino della Manifattura Antonibon, in porcellana a motivi a fiori blu orientali che si rifanno al decoro Imari, caratterizzato dalla tricromia in blu, rosso e oro su porcellana. Della stessa manifattura ma in forma cilindrica, troviamo la tazzina in porcellana decorata in oro, dell’ultimo quarto del ‘700.

In collezione a Nove si trova anche un grande caffettiera bianca dal corpo globulare, in porcellana spessa, con coperchio, decorata in oro a “piccolo fuoco” con filettatura a stelle, prodotta da Antonibon a inizio ‘800.

Lo stesso oggetto compare anche nella serie di caffettiere arabe in rame riprodotte da Euting nel suo Journal de voyage en Arabie nel 1896, distinte nel ruolo che ad ognuna spettava: quella di bollitore, di recipiente per la cottura e di bricco.  Ricordiamo infine che le persone abbienti copiavano il protocollo della carta ottomana: la caffettiera poggiava su di un vassoio, sospeso da tre catene, che conteneva la brace per mantenere calda la bevanda.

La ceramica popolare del XIX secolo

Nell’Ottocento anche le fabbriche ceramiche novesi e vicentine affrontarono i mutamenti politici, sociali ed economici, diminuendo la produzione di lusso e creando nuove gamme destinate ad una clientela più modesta ma più vasta: la media borghesia, gli operai, i contadini. Per i primi anni la produzione in terraglia, risentiva dei decori aulici settecenteschi, ma gradatamente i pittori tralasciarono i particolari, rinnovarono i soggetti, e sveltirono il segno con spigliatezza istintiva.

Inventarono nuovi procedimenti per rendere più rapida l’esecuzione, con timbri e spugnette, a cui unirono scritte con motti e dediche, avviando una prima vera produzione in serie. Decori in cui divenne protagonista la realtà e la vita quotidiana: il lavoro dei campi, le “arti per via”, le stagioni, i religiosi, le attività del tempo libero, la natura.

Ovviamente in questi decori non poteva mancare il cibo. Animali da cortile, verdure e frutti, come vediamo al Museo del Liceo nel piatto in terraglia con un grappolo d’uva e foglie realizzate a spugnetta, circondate da due larghe filettature in blu e rosso. Un classico della tradizione popolare della seconda meta dell‘800, realizzato dalla Manifattura Antonibon.

Il cibo era anche protagonista dei mestieri contadini e simbolo dell’avvicendarsi dei mesi, come nella serie di piatti in terraglia esposti al Museo di Bassano: prodotti dalla Manifattura Cecchetto di Nove nella seconda metà del XIX secolo hanno decori policromi, in cui ritroviamo la vendemmia, l’uccisione di animali e il taglio del grano.

Nella produzione popolare hanno grande rilievo le ceramiche con dediche, come conferma il boccale esposto al Museo di Nove e prodotto da Antonibon nel 1830, che riporta la scritta: “W il Sig. Giuseppe Valerio con la sua famiglia 1830 W”.

Dediche che toccano vari temi: “Bevemo compagni, Tocchemoglie el fondo, Lascemo i Malani che Nascono al Mondo W Sebellin” è quanto ad esempio leggiamo sulla fiasca di grandi dimensioni della Manifattura Sebellin, esposta al Museo di Bassano.

Un piccolo capitolo va poi dedicato alla Bossa buffona, un boccale del tipo “bevi se puoi”, o “puzzle jug”, caratterizzato dal collo completamente traforato, con manico ed orlo di spessore maggiore rispetto ai boccali normali.

La “bossa” era detta “buffona” perché rendeva ridicolo chi tentava di versare il suo contenuto: era sufficiente, infatti, inclinarla di poco perché il vino scappasse senza rimedio attraverso le aperture del collo. Il traforo mimetico del collo impediva di versare correttamente il liquido, e per bere occorreva – mantenendo il recipiente in posizione verticale – suggerla da un foro, nascosto nell’orlo dell’imboccatura, al quale giungeva tramite un canalicolo ricavato nello spessore dell’ansa. Il canalicolo, che fungeva da sifone, arrivava a pescare nel fondo del vaso. Frequentemente sul corpo di questi boccali erano presenti iscrizioni vernacolari, a volte con significati sottintesi, altre volte espliciti…

Bevèmo Nineta
o bela moreta!
Svodèmo, matòna,
‘sta bossa bufòna!
Ma sensa el segreto
de un serto busèto,
la bossa bufòna
no conta ‘na m…

Ne troviamo esempi in tutti i musei del territorio. Con decorazioni policrome a pennello e spugnetta come quella del Museo del Liceo della seconda metà dell’800; in terraglia di colore bianco di fine XIX secolo, con decori floreali policromi e la scritta: “W/ Vincenzo Antonio/ Fratelli Chiminello/ W” del Museo di Bassano; in maiolica della seconda metà del ‘700, Manifattura Antonibon, caratterizzata dalla dedica “W l’onorata famiglia W/P”, e conservata nel Museo di Nove.   

Grande diffusione nella prima metà dell’Ottocento, ebbero le maioliche tromp-l’oeil, che costituivano i pezzi di maggior successo della produzione novese popolare degli Antonibon, Viero, Cecchetto.

Per allietare le mense e il ritrovo dei commensali venivano abilmente imitati, nelle forme e nei decori, vegetali o animali da cortile: in tutti e tre i musei si ritrovano preziosi esemplari di salsiere e zuppiere zoomorfe, che riproducono conigli, galli, anatre con una precisa attenzione alla resa dei dettagli. Il riferimento da cui hanno origine è comunque colto e va ricercato nell’analoga produzione europea settecentesca.

La resa naturalistica degli animali era più credibile grazie ai colori molto vicini al reale ottenuti “a piccolo fuoco”, una terza cottura a bassa temperatura che consentiva al pittore di utilizzare colori inadatti alle alte temperature. 

A Bassano si trova la zuppiera a forma di gallo di Antonibon, della fine del XVIII secolo, che costituisce un esemplare rarissimo di contenitore a forma di animale prodotto dalla fabbrica novese alla fine del Settecento. Il collo, la testa e le piume della coda fungono da prese del coperchio di un capiente contenitore costituito dal corpo dell’animale.

Il Museo del Liceo de Fabris conserva due salsiere zoomorfe in terraglia, sempre di Antonibon e della prima meta dell’800, foggiate a stampo a forma di coniglio.

Gli animali, dalla decorazione policroma a pennello e spugna, sono adagiati su un finto terreno erboso e fiorito. Entrambe hanno la presa del coperchio a foglia arcuata e sulla parte posteriore si trova il foro per il mestolino.

Un’ultima curiosità. Nell’archivio della storica Manifattura Stringa di Nove, non aperto al pubblico, è conservata una delle zuppiere a forma di rana realizzate appositamente per Ermanno Olmi, che le ha volute nel film Lunga vita alla signora, del 1987, Leone d’Argento al Festival di Venezia. 

Il novecento e gli artisti

E arriviamo al novecento: non ve ne parliamo con servizi di design che tutti conosciamo e abbiamo sulle nostre tavole, ma con lo sguardo visionario degli artisti contemporanei.

Al Museo della Ceramica di Nove nella sezione contemporanea sono esposte due oliere in maiolica realizzate circa nel 1950 da Federico Bonaldi: semplici oggetti pensati per la tavola di tutti i giorni, esempio del felice connubio fra l’adozione di un modello originale e un fantastico decoro di derivazione popolare.

Nato nel 1933 a Bassano del Grappa, Bonaldi studia a Nove e Venezia, proseguendo l’attività artistica in un riuscito equilibrio fra sperimentazione sui materiali e un gusto per il folklore, che lo ha portato a esporre il suo lavoro in Europa e Giappone.

Nella stessa area espositiva si trova un piatto di Alessio Tasca in maiolica del 1956: altro semplice oggetto per la tavola, esordio di un grande maestro della ceramica italiana. Nato a Nove nel 1929, Tasca, dopo gli studi d’arte apre un proprio laboratorio che negli ’60 e ’70 diventa un importante crocevia di scambi artistici. Introdusse l’uso della trafila, utilizzata nell’industria dei laterizi, per realizzare grandi sculture e lavori in serie. Il modo in cui interveniva sull’argilla con filo d’acciaio è diventato celebre in tutto il mondo, tanto da trovarlo in collezione anche al Victoria & Albert Museum di Londra.         

Il Museo di Bassano ospita un nucleo di sculture contemporanee costituito anche grazie ai tre Simposi Internazionali della Ceramica, organizzati negli anni ‘70, e voluti per approfondire linguaggi contemporanei e soluzioni tecniche. Qui troviamo anche Assenza, il lavoro del 1978 di Emanuele Astengo. Con la sua poetica neofigurativa l’autore riproduce in maiolica bianca una tavola imbandita, in cui non mancano i resti di un pranzo italiano, dagli spaghetti, alle fette di pane e di salame, alla frutta.

Il progetto è stato realizzato grazie alla preziosa collaborazione dei Comuni di Nove e Bassano del Grappa e dello staff dei musei.
Un ringraziamento speciale va a Elena Agosti, Cristina Busnelli, Elena Corsi, Nadir Stringa e Emanuel Lancerini.