I musei della ceramica di Cutrofiano, Laterza e Grottaglie

Digitando i nomi di Cutrofiano, Laterza e Grottaglie su Google Maps vediamo che sono tutti situati nel tacco della nostra penisola. Basta percorrere appena duecento kilometri per andare da Laterza da Cutrofiano, incontrando Grottaglie nel tragitto.

Tre città così vicine ci raccontano di un’incredibile varietà artigiana e storica, testimoniata dalle ricche collezioni ceramiche dei loro tre musei.

 

Cutrofiano è un paese al centro della penisola salentina, in un territorio un tempo paludoso e tuttora ricco di creta. L’artigianato ceramico è storicamente l’attività più diffusa, insieme all’agricoltura, tanto da diventare un marchio impresso anche nel nome.

L’ipotesi più accreditata infatti vuole che il toponimo derivi dal termine greco Cutra, vaso, associato al verbo Fio, fare, fabbricare.

Ancora oggi è il paese delle “cotime“ e dei “cotamari”, delle terrecotte e dei vasai: “Vai a Cutrofiano” si suggeriva spesso.

Infatti, grazie alla facile modellazione dell’argilla e alla bravura degli artigiani, in paese qualunque richiesta poteva essere esaudita, e lo testimoniano testi in dialetto gallipolino del Settecento.

E gli artigiani di Cutrofiano raggiungevano, con carri incredibilmente carichi di vasellame, i mercati di tutto il Salento, le “chiazze”.

Le produzioni medievali sono attestate da materiali recuperati del periodo svevo-angioino, quando l’abitato passa da piccolo casale a terra cinta di mura. Accanto ad una massiccia produzione di boccali e ciotole in terra acroma e dipinta in rosso-bruno, si diffonde sempre più quella della ceramica invetriata e decorata nella tricromia rosso-verde-bruno manganese.

Nel XVI secolo si avvia un rinnovamento sulle forme, più slanciate e armoniose, e sulle tecniche di produzione.
Si importa il caolino dalla Calabria, per ottenere l’ingobbio che schiarisce le superfici. Si passa alla monocromia, verde, gialla o bianca, o a semplici motivi geometrici, per avvicinarsi alla maiolica da mensa. Dal XVII secolo la decorazione utilizza blu e giallo e i motivi dalla maiolica compendiaria, proposti per tutto il Settecento.
Nelle produzioni più economiche il colore dominante è invece il verde ramina, con tocchi di azzurro chiaro.

In una bottega da vasaio furono recuperate quattro monete della prima metà del Cinquecento insieme a grandi quantità di ceramica graffita. Questa tecnica, introdotta in Salento nello stesso periodo, consisteva nel decorare incidendo con una punta la superficie del vaso ancora crudo, che veniva prima ricoperto di ingobbio, poi colorato sui disegni. Con la seconda cottura ne usciva un buon prodotto, ma più economico della maiolica. Il piatto diventò un manufatto diffuso: l’esemplare esposto ha un cavo piccolo e profondo, con un’ampia tesa orizzontale, destinato a contenere zuppe e minestre.

Altro oggetto d’uso dell’epoca presente al museo è una fiasca da viaggio dalla forma globulare, con il lato posteriore piatto e decorata solo sulla parte anteriore, pensata per restare aderente al corpo in movimento.                          

Nel XVII secolo la ceramica graffita si diffonde ulteriormente, anche se in una minore varietà di forme e decori. Il museo espone un primo elemento di decorazione della cucina. È un catino pluriansato, bianco all’interno ma con ricchi decori all’esterno, ideato proprio per essere appeso.

Altra tecnica, utilizzata fin dal medioevo, per realizzare ceramica d’uso è quella definita Slip ware. Si tratta di ceramica decorata con ingobbio sotto vetrina, presente in molte regioni italiane. La troviamo anche a Cutrofiano nella tipica argilla rossa da fuoco, invetriata internamente e in parte all’esterno e decorata con rosette e festoni.

Quando Carlo di Borbone fece istituire un catasto onciario per riordinare il regime fiscale del regno di Napoli valutando i patrimoni in once, fra le qualifiche dei “contribuenti” appariva anche quella di pignataro.

Un artigiano ceramista molto diffuso all’epoca che realizzava esclusivamente il manufatto più usato in cucina, la pignata.

Altra forma tipica era l’oliera, il cutrubbu, che per molto tempo ha rivestito un’importanza particolare, diventando quasi simbolo del paese. Era ritenuto all’origine del suo nome, in un’improbabile passaggio da cutrubbu a Cutrofiano. In realtà Cutrubbu è un’alterazione di Cutra, vaso, e Cutrofiano è il posto dove si fanno i vasi.

Con l’impulso demografico dell’Ottocento cresce anche il numero delle botteghe, che diventano quasi cinquanta.
Aumenta la concorrenza e si abbassa la qualità, ma in compenso si sviluppa una grande varietà di forme ispirate alle necessità delle famiglie contadine, ormai uniche destinatarie delle produzioni locali.
La vaschetta scolabicchieri esposta al museo, era utilizzata soprattutto nelle osterie. Dalla forma circolare, era dotata di doppio fondo e serviva per mettere i bicchieri a scolare dopo il lavaggio.
Non mancano tuttavia botteghe che non rinunciano a una produzione più curata, grazie anche allo scambio con Grottaglie. Nella seconda metà del secolo due artigiani grottagliesi si trasferiscono a Cutrofiano, portando oggetti come la zuppiera con prese a protome leonina o la piccola zuppiera nera.

La storia della ceramica di Laterza ruota intorno ad una comunità che ha saputo unire inventiva e sensazioni, arrivando all’eccellenza nella produzione della maiolica. Una storia con radici profonde, che ha attraversato i secoli specializzandosi sempre più insieme ad artisti come Angelo Antonio D’Alessandro, Gallo, Tammorrino, D’Aloisio, Andriuzzo, Collocola.

Un crescendo iniziato dai maestri ceramisti di Laterza nel XIV secolo, inventori di un proprio stile ben preciso, l’istoriato laertino, che ritroviamo nelle collezioni in Italia e nel mondo, fra le più interessanti espressioni della ceramica italiana dell’età barocca.

Il MUMA, Museo della Maiolica di Laterza ha selezionato per noi dalla sua ricca collezione una serie di lavori del secolo XVIII di grande pregio, destinati alla tavola e alla cucina.
Dall’albarello, alle anfore e coppe biansate, passando per fiasche, chicchera e portachicchera (tazzina e piattino), sono tante le forme realizzate nella tipica decorazione locale.

La raffinata bicromia fra bianco e una serie di tonalità dal turchino al grigio-azzurro al celeste, al blu chiaro, si declina in svariati decori con stemmi, cani, uccelli, altri animali, elmi, motivi floreali e alberi, architetture, ritratti, paesaggi collinari e cittadini.

Segnaliamo un albarello, tipico vaso di forma cilindrica allungata normalmente utilizzato in cucina e farmacia, che riporta la scritta Anacardi. Questa pianta, proveniente dalle Indie e introdotta in medicina dagli arabi, era inizialmente chiamata baldor. L’anacardium, che deve il suo nome alla vaga somiglianza del suo frutto col cuore di un uccello, aveva varie applicazioni nel campo della medicina, dalla cauterizzazione delle verruche, al potenziamento della memoria, fino alla riduzione dei danni della paralisi.

Nel museo è esposto anche un oggetto insolito per la produzione di Laterza: una fiasca a forma di un pesce panciuto. Interamente decorata per evidenziare la sua natura zoomorfa, ha brevi e trasparenti tratti turchini, punteggiati di verde ramina per creare squame stilizzate, mentre linee e tratteggi a frangia riproducono gli aculei di collo e coda. Questo tipo di contenitore si ricollega ad un’altra tipologia della maiolica laertina: quella delle borracce e fiaschette a libro.

La teiera dalla tavolozza giallo-arancio, con un paesaggio a scena aperta, è un altro raro esemplare conservato nel museo.

Ci racconta di un nuovo gusto per la porcellana diffuso dalla metà del Settecento, grazie alla manifattura di Capodimonte, sorta per volontà di Carlo di Borbone. I ceramisti laertini, sensibili alle esigenti richieste, dimostrano di adeguarsi a nuove forme e tecniche.

Sempre in questi anni fanno la loro comparsa le forme legate all’uso del tè, che iniziò ad essere regolarmente importato dal 1650 circa: teiere cilindriche e rotondeggianti, tazze e scatole per contenere le foglie essiccate. Fra le decorazioni la preferita è la cineseria, talvolta unita al repertorio barocco, e ai modelli paesistici di Castelli e di Napoli, mescolando giardini, pagode, uccelli fantastici.

Anche se conservato al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza un cenno va al “Mangiamaccheroni”, realizzato nel 1693 da Angelo Antonio d’Alessandro, il prete-ceramista, personalità chiave della ceramica di Laterza.

Il piatto, ispirato al celebre dipinto di Annibale Carracci “Il Mangiafagioli”, riporta un uomo intento a rimpinzarsi di quei maccheroni che nel vernacolo napoletano vengono chiamati “paccheri”. Il termine deriva probabilmente dal greco pan e chèir, ovvero tutta la mano, e viene usato anche per definire un sonoro ceffone inferto a piena mano. Sul personaggio in costume cinquecentesco si librano due minacciosi diavoletti, recanti forchetta e cucchiaio e simboleggianti il vizio della gola.

Il “Mangiamaccheroni” ci svela dettagli della sua epoca, ma tanti sono gli aneddoti legati alle ceramiche di uso comune, come questi che si tramandano a Laterza.

Il primo racconta le origini del U’ “piatt cup” e del “boccale dell’ubriaco”: due oggetti laertini che devono il loro uso e la loro forma a un evento del passato, forse leggenda.

Angelo, capo di modestissima famiglia, ogni giorno andava in paese, sperando che un “massaro” lo reclutasse per lavorare in cambio di una pagnotta, qualche frutto, un po’ di farina e un boccale di vino, cosa che accadeva di rado. Un giorno l’uomo si trovò ad ascoltare il banditore del Marchese di Laterza che comunicava un editto del suo signore.

“Udite, udite, gente, il nostro signore, Marchese di Laterza Antonio Perez Navarrete, in occasione del matrimonio del figlio Nocolò, ricompenserà lautamente ciascun maschio adulto del paese disponibile a servire al pranzo nuziale. Ogni servitore riceverà tutto il cibo avanzato che riuscirà ad entrare in un singolo piatto: carne al fornello, zampini, fegatini e gnumredd, pane di Laterza e un boccale di vino.”

Angelo accettò, escogitando l’idea di presentarsi con un piatto di dimensione spropositata, che chiese in favore ad un amico ceramista.

Al matrimonio i servitori si adoperarono per deliziare gli ospiti giunti da ogni dove. Conclusa la festa, il marchese riempí il loro piatto con la deliziosa tipica carne arrostita. Angelo mise in bella mostra il suo enorme e bellissimo “piatto cup” riuscendo non solo ad accaparrarsi tantissimo cibo, ma a sbalordire il marchese, che volle comprare quell’insolita opera.

Gli altri, invidiosi, vollero vendicarsi: lo invitarono a mangiare in taverna e al momento di bere il vino gli offrirono un boccale con strani fori decorativi. Avvicinando la bocca Angelo si rovesciò addosso tutto il contenuto scatenando le risate degli avventori, e facendosi scambiare per un “gran beone” appena uscito dal locale.

Il boccale da cui si beve da uno speciale foro di uscita e chiudendone un altro, è entrato nella tradizione ceramica di Laterza con il nome di “boccale dell’ubriaco”, come pure il grande piatto cup.

Sempre di ceramica e cibo parla la storia di Costantino, il riparatore, U Conzagrasta, che fino agli anni 50 ha girato il paese con una cassetta piena di attrezzi, gridando “u conzagraste oh! oh! oh!”.
Erano in molte le donne che lo chiamavano, vista la fragilità degli utensili di casa – anfore, orci, giare e pignatte – che erano tutti in terracotta.

Costantino faceva i buchi con il trapano, li fermava con pezzetti di legno, poi spalmava argilla e terra rossa, sciolta in acqua. C’era comunque chi riparava da sè gli oggetti servendosi del liquido colloso che spurgano i lambasc(i)ùne, le cipolline selvatiche tipiche della zona.
I più soggetti alla rottura erano le pignatte per il cibo quotidiano dei tempi, i legumi. Quando se ne mettevano troppi si creava una pressione che crepava i recipienti.
Allora si raschiava con il coltello il liquido colloso da nu lambasòne, lo si stendeva su una striscia di stoffa che veniva lasciata per un giorno sulla fenditura.
Il giorno seguente si potevano cucinare i legumi: la pezza bruciava ma della crepa non c’era più traccia.

A Grottaglie, cittadina in provincia di Taranto, ormai da secoli è presente un fiorente artigianato ceramico strettamente legato alla ricchezza di argilla del territorio.
Fino al secolo scorso in ogni casa era possibile trovare una cinquantina di oggetti in ceramica: un vero inno all’attuale movimento More ceramic Less plastic!, che promuove un ritorno della ceramica al posto della plastica in cucina.
Si trattava di oggetti d’uso che nulla avevano a che fare con l’attuale utilizzo ornamentale.

Anche a Grottaglie questa arte ha una storia antichissima, come dimostrano i reperti museali, ed affonda le sue radici nel Medioevo. L’artigianato ceramico, che ha trainato per secoli la vita e il commercio, è rappresentato da una collezione di circa 400 manufatti che coprono un arco che va dall’VIII secolo a.C. ai giorni nostri.
Il Museo della Ceramica di Grottaglie ne ha scelti per noi dieci, che riassumono i tipici usi alimentari locali del XIX e inizi del XX secolo, tutti usciti dalle fornaci locali e conservati nella sezione della Ceramica Tradizionale d’Uso.

Il “Cammautto”, utilizzato per conservare le olive in salamoia, aveva il tipico orlo per legare la cordicella che fermava il panno di chiusura. Era utilizzato anche per conservare in acqua dolce le olive nere, poi spezzettate per preparare la focaccia rustica farcita. L’acqua veniva cambiata spesso per togliere alle olive il gusto amarognolo. I “cammautti” di grossa dimensione avevano quattro manici per essere trasportati e svuotati da due uomini.

La “Capasa” (da capase (capace)) era il tipico vaso per conservare provviste alimentari rustiche. Conteneva la sugna, lo strutto preparato nel periodo dell’uccisione dei maiali e conservato per l’inverno, ma anche la ricotta forte rassodata e salata.

Chiamata “salaturu” quando contiene olive in salamoia, si utilizzava anche per conservare fichi secchi preparati con diverse ricette casalinghe: spaccati a metà ed essiccati al sole o imbottiti con mandorle e cotti in forno tiepido.

Il “Fiscaru” oppure “Fiscarieddo”, serviva per dare forma e conservare la ricotta di pecora. I piccoli cestelli, di forma cilindrica o troncoconica, avevano numerosi forellini per la lenta fuoriuscita del siero. I pastori solevano mettere la ricotta dentro “li fiscari” oppure in fiscelle fatte di vimini o giunchi intrecciati, per venderla fermandosi con il gregge a bordo delle strade.

Proviene sempre dalle Fabbriche di Grottaglie il piatto reale da tavola, del 1929 circa. La denominazione dei piatti variava in base al loro diametro: alle sarsiere di 18-20 cm, seguivano il “piatteddu”, il piattu minzanu, il “piattu terzinu”, il “piattu reale” appunto di 40 cm, e infine il “piattu strareale” che poteva arrivare anche a 80 cm.

I piatti reali erano spesso decorati con motivi ornamentale floreali, vegetali ed anche figurativi.

Nei mercati locali i piatti erano venduti a pile, chiamate in dialetto “fasse”. La tradizione locale racconta che durante il pranzo nuziale lo sposo traeva auspici riguardo la futura prole svuotando il piatto reale. Se trovava un galletto dipinto, il primogenito dei novelli sposi sarebbe stato un maschietto.

La “pignata”, utilizzata per cuocere legumi secchi, tradizionalmente veniva posta direttamente sulla brace ardente accanto alla legna accesa, e il cibo cuoceva adagio. Il manufatto esposto è in terracotta invetriata, con corpo ovoidale fornito di collo cilindrico.

Il “srulu a secretu” è il contenitore di vino con segreto, tipico di molte tradizioni ceramiche. Non è possibile versare il vino nel solito modo: il liquido passa attraverso il beccuccio da un condotto interno che dal fondo del vaso attraversa il manico.

Con piede circolare, corpo globulare e collo traforato, il museo ne espone un esemplare con un insolito rivestimento marmorizzato.

Il “Tazzune” (Tazzone) è una contenitore piuttosto ampio usato per il latte o il siero avanzato dalla preparazione della ricotta. Serviva anche per brodi e decotti per gli ammalati, come quello ottenuto dalla bollitura di fichi secchi, mele cotogne, mandorle, cannella, buccia di arancio e di limone, considerato speciale contro la tosse. Nell’area otrantina il “tazzune” può essere chiamato: “ciarra” e “ciarredda”.

Il “Tiestu” è la teglia adatta per cuocere in forno verdure ripiene come carciofi, melanzane, zucchine. È tipicamente un contenitore basso in terracotta invetriata a sezione circolare con un orlo rivolto all’esterno.

Il “Vasettu smarmriatu cu lu cuperchiu” è un contenitore per alimenti con il coperchio e dalla decorazione che ricorda i marmi variegati, con ingobbio rossastro con macchie bianche e verdi. Serviva per conservare marmellate, cotognata tagliata a losanghe, biscottini dolci, mandorlette, semi di zucca e ceci abbrustoliti.

La zuppiera infine, destinata alle famiglie più ricche, era utilizzata con il brodo di carne, un cibo costoso e insolito sulla mensa meridionale. Aveva anche un ruolo ornamentale, ma in ogni caso era un manufatto poco comune e modellato su richiesta. Forma e decorazioni risentivano sia del gusto dei committenti che dell’influenza delle regioni limitrofe. In questo caso la zuppiera è ricoperta di smalto avorio ed è chiusa da un coperchio con un pomolo a forma di pigna.

Il progetto è stato realizzato grazie alla preziosa collaborazione dei Comuni e dei Musei di Cutrofiano, Laterza e Grottaglie.